Con il Grazie alò caro Confratello nome utente Facebook
+ Ιl 30 di questo mese,Memoria del santo ieromartire Marciano, primo vescovo di Siracusa, discepolo dell’Apostolo Pietro
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2642552842508209&set=a.1001927373237439&type=3&theater
Il 29 di Ottobre, memoria del nostro santo padre e Confessore Stefano il Giovane, patrono di Salice a Messina.
Santo Stefano il Giovane, nato a Costantinopoli tra l'agosto e il dicembre del 715 e morto nello stesso luogo il 28 Novembre 768, è conosciuto anche come il martire dell'iconoclastia. A Salice il suo culto si diffuse in seguito alla costruzione di un monastero Italogreco di cui oggi si sono perse le tracce, ma di cui è provata l'esistenza in un manoscritto del 1342. Con il tempo il nome di S. Stefano il Giovane si è confuso con quello di un monaco che, secondo la tradizione, visse in questo monastero e fu lapidato e sepolto a Salice. Questa figura è avvolta dal mistero in quanto non esistono fonti o documenti che comprovano la sua esistenza. I due Santi, quindi, vengono ad assimilarsi, nonostante per gli abitanti sia chiaro il fatto che S. Stefano il Giovane non venne mai a Salice e che si parla di due figure distinte che poi, di fatto, durante le celebrazioni diventano un tutt'uno. Il giorno in cui la Chiesa celebra ufficialmente S. Stefano il Giovane è il 28 novembre, il giorno della sua morte. A Salice la ricorrenza cade, invece il 29 ottobre, giorno in cui si fa risalire la morte di S. Stefano di Salice.
Le prime fonti storiche di Salice ci riportano al 1134, quando Ruggero II donò alcuni feudi, tra cui il territorio di Salìce, al Monastero del San Salvatore di Messina. Anche Salìce, come altri paesi circostanti, fu sede dei monaci greci (prima del 2005, Salìce, insieme a Gesso, Orto Liuzzo e Rodia era compreso nel XIII quartiere o circoscrizione, detto "dei basiliani"). Si pensa che un tempo, situato in contrada Badia, vi si trovava un monastero dedicato a Santo Stefano Juniore, che dipendeva direttamente dall'Archimandritato del Santissimo Salvatore dei Greci. Una vasta area di terreno, nella zona nord di Messina, fu affidata nel 1134 da Ruggero II (primo regnante dell'isola) ai monaci greci. All'Archimandrita Luca fu affidato il territorio di Salice con disposizione di creare un villaggio con dei servitori per il monastero.
Le prime fonti storiche di Salice ci riportano al 1134, quando Ruggero II donò alcuni feudi, tra cui il territorio di Salìce, al Monastero del San Salvatore di Messina. Anche Salìce, come altri paesi circostanti, fu sede dei monaci greci (prima del 2005, Salìce, insieme a Gesso, Orto Liuzzo e Rodia era compreso nel XIII quartiere o circoscrizione, detto "dei basiliani"). Si pensa che un tempo, situato in contrada Badia, vi si trovava un monastero dedicato a Santo Stefano Juniore, che dipendeva direttamente dall'Archimandritato del Santissimo Salvatore dei Greci. Una vasta area di terreno, nella zona nord di Messina, fu affidata nel 1134 da Ruggero II (primo regnante dell'isola) ai monaci greci. All'Archimandrita Luca fu affidato il territorio di Salice con disposizione di creare un villaggio con dei servitori per il monastero.
Il 25 di questo mese, memoria del nostro santo padre Nicio (o Giacomo) di Chalkì, Ιgumeno del monastero di San Paolo della Foresta presso Pontecorvo (FR).
Di questo santo si hanno poche informazioni. Comunque, San Nicio nacque a Chalkì presso Rodi, circa nella seconda metà del X secolo, dopo la morte dei genitori giunse in Italia ed a Montecassino ricevette la tonsura monastica, ma l'insofferenza al rito latino, nonché alla mentalità occidentale, lo costrinsero a farsi eremita a San Nicola di Ciconia, comunque dipendenza monastica del monastero benedittino di Montecassino. Quindi, successivamente, fondò un monastero greco-ortodosso presso un bosco di Pontecorvo donatogli dal Conte Guido: il monastero prese il nome di San Paolo della Foresta, riservato esclusivamente ai monaci greco-ortodossi. Nel Typikon vietò espressamente che vi mettessero piede monaci “latini”: "ipsum monasterium de vestris Graecis Monachis sit amodo, et usque in sempiternum;quicumque exinde hanc regulam quod dicitur atticam in latinam convertere voluerit, maledictus et excomunicatus fiat a Deo Patre Omnipotente"
San Nicio si spense il 25 ottobre di un anno imprecisato.
Gli abati che li succedettero: Clemente (1030-1051), Arsenio (1059-1065), Saba (1067) e Giona (1071), sono tutti qualificati come "ex genere Graecorum".
San Nicio si spense il 25 ottobre di un anno imprecisato.
Gli abati che li succedettero: Clemente (1030-1051), Arsenio (1059-1065), Saba (1067) e Giona (1071), sono tutti qualificati come "ex genere Graecorum".
+ Il 24 di Ottobre, memoria del santo Ieromartire Felice di Thibiuca, venerato a Venosa e in tutta l'Italia Meridionale.
Le passiones oggi possedute, dipendenti da una passio di un contemporaneo, sono state interpolate con ogni probabilità da autori dell'Italia meridionale, giacché il luogo del martirio del vescovo africano Felice è trasferito da Cartagine a Venosa nella Puglia od a Nola nella Campania. Queste passiones sono state poi riassunte in vari Martirologi con altre deformazioni od aggiunte. Il Delehaye ha cercato di togliere gli elementi leggendari presentando la probabile redazione primitiva.
Il magistrato di una località non molto distante da Cartagine, Thibiuca, oggi Zoustina (il nome è però trascritto in documenti antichi e recenti in vari modi: Tibiura, Tubioca, Tubzack, ecc.), eseguendo gli ordini imperiali, nel giugno del 303, chiamò in tribunale il prete Afro ed i lettori Cirillo (Giro) e Vitale. Alla richiesta di consegnare i libri sacri, Afro rispose che erano in possesso del vescovo Felice, in quel giorno assente dalla città. Il giorno seguente fu la volta del vescovo, il quale anche lui, alla richiesta del magistrato di consegnare i libri sacri, oppose un netto rifiuto. Furono concessi tre giorni di tempo per riflettere, passati i quali Felice venne inviato a Cartagine al proconsole Anulino. Dopo quindici giorni di permanenza in carcere fu sottoposto ad interrogatorio: gli furono nuovamente richiesti i libri sacri che il vescovo non volle consegnare, e per conseguenza fu condannato alla decapitazione. Aveva allora cinquantasei anni. La sentenza fu eseguita il 15 luglio; fu sepolto nella basilica di Fausto, celebre per i molti corpi di martiri ivi sepolti (cf. Mansi, VIII, col. 808). In alcuni martirologi è menzionato il 30 agosto (forse perché ci fu confusione con i martiri romani Felice ed Adautto commemorati nella stessa giornata). In altri Martirologi la festa è al 24 ottobre.
Meritano segnalazione le aggiunte leggendarie, perché denotano l'estensione del culto di Felice nell'Italia meridionale. Nella prima parte queste passiones riferiscono l'interrogatorio e gli episodi sopraddetti, differendo specialmente nella parte finale. Infatti il proconsole Anulino non avrebbe impartito l'ordine di decapitazione bensì quello di inviare Felice in Italia. La descrizione del viaggio presenta notevoli differenze da testo a testo; secondo una narrazione Felice transitò per Agrigento, Taormina, Catania, Messina ed infine giunse a Venosa ove il prefetto lo fece decapitare (30 agosto). Mentre un'altra versione riferisce che Felice fu inviato a Roma e quivi condannato a seguire gli imperatori, per cui giunse a Nola ove venne ucciso il 29 luglio (in altro testo c'è la data del 15 gennaio). Le reliquie furono poi trasferite a Cartagine. Secondo il primo racconto a Venosa furono martirizzati i compagni di Felice il prete Gennaro ed i lettori Fortunanzio e Settimio. Il Martirologio Romano, copiando da quelli di Usuardo ed Adone, nomina invece, come compagno di Felice, Adautto. L'aggiunta di questo nome è facilmente spiegabile: a Roma erano venerati il 30 agosto Felice ed Adautto, per cui i compilatori confusero il Felice romano con il Felice cartaginese.
Resta la questione di Felice venerato nell'Italia meridionale ed in particoiar modo a Venosa. Si tratta indubbiamente del santo di Thibiuca: lo affermano le stesse passiones leggendarie. Il fatto del culto, assai antico, può essere dipeso dalla presenza di reliquie del martire africano. Agli agiografi italiani non fu poi difficile spiegare la venerazione descrivendo il martirio come avvenuto a Venosa od a Nola. Nella leggenda di Venosa sono menzionati i martiri compagni di Felice, Gennaro, Fortunaziano, Settimino. Si tratta probabilmente di santi africani (cf. Lanzoni, pp. 286-87) facenti parte di una complessa leggendaria vicenda riguardante altre città dell'Italia meridionale. Con ogni probabilità il compilatore italiano ha sostituito ad Afro e compagni, menzionati negli Atti autentici, altri martiri venerati a Venosa ed in altre località della zona.
Il magistrato di una località non molto distante da Cartagine, Thibiuca, oggi Zoustina (il nome è però trascritto in documenti antichi e recenti in vari modi: Tibiura, Tubioca, Tubzack, ecc.), eseguendo gli ordini imperiali, nel giugno del 303, chiamò in tribunale il prete Afro ed i lettori Cirillo (Giro) e Vitale. Alla richiesta di consegnare i libri sacri, Afro rispose che erano in possesso del vescovo Felice, in quel giorno assente dalla città. Il giorno seguente fu la volta del vescovo, il quale anche lui, alla richiesta del magistrato di consegnare i libri sacri, oppose un netto rifiuto. Furono concessi tre giorni di tempo per riflettere, passati i quali Felice venne inviato a Cartagine al proconsole Anulino. Dopo quindici giorni di permanenza in carcere fu sottoposto ad interrogatorio: gli furono nuovamente richiesti i libri sacri che il vescovo non volle consegnare, e per conseguenza fu condannato alla decapitazione. Aveva allora cinquantasei anni. La sentenza fu eseguita il 15 luglio; fu sepolto nella basilica di Fausto, celebre per i molti corpi di martiri ivi sepolti (cf. Mansi, VIII, col. 808). In alcuni martirologi è menzionato il 30 agosto (forse perché ci fu confusione con i martiri romani Felice ed Adautto commemorati nella stessa giornata). In altri Martirologi la festa è al 24 ottobre.
Meritano segnalazione le aggiunte leggendarie, perché denotano l'estensione del culto di Felice nell'Italia meridionale. Nella prima parte queste passiones riferiscono l'interrogatorio e gli episodi sopraddetti, differendo specialmente nella parte finale. Infatti il proconsole Anulino non avrebbe impartito l'ordine di decapitazione bensì quello di inviare Felice in Italia. La descrizione del viaggio presenta notevoli differenze da testo a testo; secondo una narrazione Felice transitò per Agrigento, Taormina, Catania, Messina ed infine giunse a Venosa ove il prefetto lo fece decapitare (30 agosto). Mentre un'altra versione riferisce che Felice fu inviato a Roma e quivi condannato a seguire gli imperatori, per cui giunse a Nola ove venne ucciso il 29 luglio (in altro testo c'è la data del 15 gennaio). Le reliquie furono poi trasferite a Cartagine. Secondo il primo racconto a Venosa furono martirizzati i compagni di Felice il prete Gennaro ed i lettori Fortunanzio e Settimio. Il Martirologio Romano, copiando da quelli di Usuardo ed Adone, nomina invece, come compagno di Felice, Adautto. L'aggiunta di questo nome è facilmente spiegabile: a Roma erano venerati il 30 agosto Felice ed Adautto, per cui i compilatori confusero il Felice romano con il Felice cartaginese.
Resta la questione di Felice venerato nell'Italia meridionale ed in particoiar modo a Venosa. Si tratta indubbiamente del santo di Thibiuca: lo affermano le stesse passiones leggendarie. Il fatto del culto, assai antico, può essere dipeso dalla presenza di reliquie del martire africano. Agli agiografi italiani non fu poi difficile spiegare la venerazione descrivendo il martirio come avvenuto a Venosa od a Nola. Nella leggenda di Venosa sono menzionati i martiri compagni di Felice, Gennaro, Fortunaziano, Settimino. Si tratta probabilmente di santi africani (cf. Lanzoni, pp. 286-87) facenti parte di una complessa leggendaria vicenda riguardante altre città dell'Italia meridionale. Con ogni probabilità il compilatore italiano ha sostituito ad Afro e compagni, menzionati negli Atti autentici, altri martiri venerati a Venosa ed in altre località della zona.
Autore: Gian Domenico Gordini
+Il 23 di Ottobre, memoria del nostro santo padre Giovanni, vescovo di Siracusa. (+609)
+Τη κγ' του μηνός Οκτωβρίου, μνήμη του εν αγίοις πατρός ημών Ιωάννου επισκόπου Συρακουσών. (+609)
Il VI secolo è l’epoca in cui l’elemento etnico greco, già numeroso in Sicilia, ha la predominanza anche religiosa, dovuta all’assetto militare, politico, economico, giuridico, culturale che la riconquista giustinianea compí nell’isola liberandola dalla dominazione gotica. La situazione fu notata, a Roma, dal grande vescovo san Gregorio, il quale non accettava volentieri questa diminuzione dell’elemento latino al quale tentò di dare vigore con l’invio, direttamente da Roma, di alcuni suoi confratelli, monaci sull’Aventino, quali vescovi di quella sede primaziale isolana. Tuttavia l’elemento greco continuò a imporsi e un quarantennio dopo la morte dei tre santi vescovi latini inviati da Roma (Massimiano, Giovanni e Pietro) la successione episcopale passò di fatto e decisamente sotto l’influsso della città imperiale e patriarcale di Costantinopoli.
Arcidiacono della Chiesa catanese, nel febbraio 593 fu designato alla sede di Siracusa da san Gregorio Magno, ansioso di dare un degno successore a san Massimiano, ch’era stato suo precettore nella vita monastica e successivamente suo vicario in Sicilia. Nell’ottobre dello stesso anno il pontefice concesse a Giovanni l’uso del pallio, che tuttavia in quel tempo non era ancora privilegio dei metropoliti, e scrisse al suo rettore, Cipriano, affinché con amabili maniere inducesse Leone, vescovo di Catania, a cedere a Giovanni un sacerdote, che gli fosse di sollievo e di aiuto nel governo della sua Chiesa.
Giovanni fu veramente emulo di san Massimiano e san Gregorio intrattenne con lui rapporti affettuosi, di cui sono testimonianza le moltissime lettere che gli indirizzò.
Alcuni in Sicilia, a proposito di certe usanze introdotte nella riforma liturgica promossa da san Gregorio e credute novità, mormoravano contro di lui quasi volesse abbandonare le tradizioni romane per seguire quelle greche. Il santo pontefice non disdegnò di giustificarsi e incaricò Giovanni di spiegare, a Catania o a Siracusa, dove alternativamente ogni anno si teneva il concilio dell’isola, che le asserite novità altro non erano die antichi riti ripristinati, astraendo dalle consuetudini dei greci.
Per effetto della fervida opera di san Gregorio, alla Sicilia, come nota il Pace, «né prima né poi toccò tanta partecipazione ai negozi della Chiesa universale cui, in meno di cento anni [fra il VII e l’VIII secolo] diede cinque pontefici».
San Gregorio prescelse Giovanni per molteplici incarichi in cui rifulse per prudenza, equità e dottrina. Gli affidò di reggere il patrimonio della Chiesa romana, nella provincia siracusana, che abbracciava allora metà della Sicilia, tagliata trasversalmente dal corso dei due fiumi Imera: l’uno che sboccava nel Tirreno preso l’attuale Termini Imerese, l’altro, corrispondente al Salso, che sfocia nel Mediterraneo presso Licata.
A lui e all’ex console Leonzio, pretore dell’isola, rimise per la decisione una lite tra Domenziano, metropolita dell’Armenia, tutore dei figli dell’imperatore Maurizio, e Decio, vescovo di Lilibeo «perché sono sicuro della santità e sollecitudine di Giovanni, e quando egli giudica, né alcuno può essere ingannato, né la Chiesa aver pregiudizio». Furono parimenti affidati al vescovo di Siracusa i casi delicati di Cremenzio, primate dell’Africa Bizacena e di Lucilio, vescovo di Malta. L’espletamento di affari di tanta fiducia e le lodi uscite dalla penna di un tanto uomo, qual era san Gregorio, il quale arriva a scrivere: «postquam fratrem Ioannem vidistis, in eo et nos vidisse credimus» mostrano bene qual dovesse essere il nostro santo.
Si spiega quindi come il biografo di san Zosimo, che fu anch’egli vescovo di Siracusa, narrando dei lume profetico col quale Giovanni scelse l’ostiario Zosimo ad abate del monastero di santa Lucia, dica che egli «era uomo venerando per la sua santità, singolare per la sua virtù, in grandissima fama per il dono delle profezie e celebrato con ogni elogio».
Secondo il Pirro, Giovanni si addormentò nel Signore circa il 609. La Chiesa siracusana lo ricorda il 23 ottobre.
Una bolla plumbea di Giovanni venne riconosciuta da E. Stevenson nel Museo del camposanto teutonico in Roma, scritta in più righe da ambo i lati.
Arcidiacono della Chiesa catanese, nel febbraio 593 fu designato alla sede di Siracusa da san Gregorio Magno, ansioso di dare un degno successore a san Massimiano, ch’era stato suo precettore nella vita monastica e successivamente suo vicario in Sicilia. Nell’ottobre dello stesso anno il pontefice concesse a Giovanni l’uso del pallio, che tuttavia in quel tempo non era ancora privilegio dei metropoliti, e scrisse al suo rettore, Cipriano, affinché con amabili maniere inducesse Leone, vescovo di Catania, a cedere a Giovanni un sacerdote, che gli fosse di sollievo e di aiuto nel governo della sua Chiesa.
Giovanni fu veramente emulo di san Massimiano e san Gregorio intrattenne con lui rapporti affettuosi, di cui sono testimonianza le moltissime lettere che gli indirizzò.
Alcuni in Sicilia, a proposito di certe usanze introdotte nella riforma liturgica promossa da san Gregorio e credute novità, mormoravano contro di lui quasi volesse abbandonare le tradizioni romane per seguire quelle greche. Il santo pontefice non disdegnò di giustificarsi e incaricò Giovanni di spiegare, a Catania o a Siracusa, dove alternativamente ogni anno si teneva il concilio dell’isola, che le asserite novità altro non erano die antichi riti ripristinati, astraendo dalle consuetudini dei greci.
Per effetto della fervida opera di san Gregorio, alla Sicilia, come nota il Pace, «né prima né poi toccò tanta partecipazione ai negozi della Chiesa universale cui, in meno di cento anni [fra il VII e l’VIII secolo] diede cinque pontefici».
San Gregorio prescelse Giovanni per molteplici incarichi in cui rifulse per prudenza, equità e dottrina. Gli affidò di reggere il patrimonio della Chiesa romana, nella provincia siracusana, che abbracciava allora metà della Sicilia, tagliata trasversalmente dal corso dei due fiumi Imera: l’uno che sboccava nel Tirreno preso l’attuale Termini Imerese, l’altro, corrispondente al Salso, che sfocia nel Mediterraneo presso Licata.
A lui e all’ex console Leonzio, pretore dell’isola, rimise per la decisione una lite tra Domenziano, metropolita dell’Armenia, tutore dei figli dell’imperatore Maurizio, e Decio, vescovo di Lilibeo «perché sono sicuro della santità e sollecitudine di Giovanni, e quando egli giudica, né alcuno può essere ingannato, né la Chiesa aver pregiudizio». Furono parimenti affidati al vescovo di Siracusa i casi delicati di Cremenzio, primate dell’Africa Bizacena e di Lucilio, vescovo di Malta. L’espletamento di affari di tanta fiducia e le lodi uscite dalla penna di un tanto uomo, qual era san Gregorio, il quale arriva a scrivere: «postquam fratrem Ioannem vidistis, in eo et nos vidisse credimus» mostrano bene qual dovesse essere il nostro santo.
Si spiega quindi come il biografo di san Zosimo, che fu anch’egli vescovo di Siracusa, narrando dei lume profetico col quale Giovanni scelse l’ostiario Zosimo ad abate del monastero di santa Lucia, dica che egli «era uomo venerando per la sua santità, singolare per la sua virtù, in grandissima fama per il dono delle profezie e celebrato con ogni elogio».
Secondo il Pirro, Giovanni si addormentò nel Signore circa il 609. La Chiesa siracusana lo ricorda il 23 ottobre.
Una bolla plumbea di Giovanni venne riconosciuta da E. Stevenson nel Museo del camposanto teutonico in Roma, scritta in più righe da ambo i lati.
+ Il 21 di questo mese, memoria del Santo Padre nostro Ilarione il Grande, fondatore e modello di vita eremitica nella Magna Grecia.
+ Τῇ ΚΑ' τοῦ αὐτοῦ μηνός, Μνήμη τοῦ Ὁσίου Πατρὸς ἡμῶν Ἱλαρίωνος τοῦ Mεγάλου, πρώτου ερημἰτου εν τη Μεγάλη Ελλάδα.
Ilarione di Gaza, originario della Palestina, compì gli studi ad Alessandria, dove si convertì al cristianesimo e fu battezzato. Desideroso di dedicarsi alla vita ascetica, incontrò Sant'Antonio l'anacoreta e quindi tornò in Palestina dove, dopo aver scoperto della morte dei propri genitori, donò tutti i suoi averi ai poveri. Dopo aver introdotto l'ascetismo nel territorio circostante Gaza, si dedicò alla vita monastica viaggiando per tutto l'Impero Romano. Nel 330 si imbarcò per la Sicilia, dove visse come eremita in una grotta a Cava Ispica. In una grotta - detta appunto a rutta ri Sant'Ilariuni (la grotta di Sant'Ilarione) - pare abbia dimorato questo santo, mentre tutta la zona è chiamata Scala uruni (scala di Sant'ilarione), per l'esistenza di un'antica scala ricavata nella roccia che dalla grotta portava al fondo della valle. È il periodo della diffusione del monachesimo, che si diffonde in ogni angolo della Sicilia e della Magna Grecia.
Verso la fine della sua vita, sempre secondo le stesse fonti, i suoi miracoli gli diedero fama di guaritore e viaggiò, dal 365, ininterrottamente per l'Italia, la Croazia e Cipro, inseguito da folle di ammalati. Morì a Pafo nel 371.
Verso la fine della sua vita, sempre secondo le stesse fonti, i suoi miracoli gli diedero fama di guaritore e viaggiò, dal 365, ininterrottamente per l'Italia, la Croazia e Cipro, inseguito da folle di ammalati. Morì a Pafo nel 371.
"Come astro senza tramonto del sole spirituale, noi oggi, riuniti, ti celebriamo con inni. Tu hai rifulso per quelli che sono nelle tenebre dell’ignoranza, sollevando alle divine altezze, o Ilarione, tutti quelli che a te acclamano: Gioisci, padre, fondamento degli asceti".
Il 15 di questo mese memoria del nostro santo padre Savino vescovo di Catania.
+Τη ΙΕ' του αυτού μηνός, μνήμη του εν αγίοις πατρός ημών Σαβίνου επισκόπου Κατάνης.
Sabino, vissuto nel secolo VIII, fu uno dei vescovi di Catania più stimati e apprezzati, tanto da essere venerato come santo dalla chiesa catanese.
Fu il predecessore di San Leone, dalla cui Vita si ricavano alcune notizie. Ordinato vescovo per le sue note virtù, fu l'XI vescovo di Catania; insigne per fama di santità attirò molti nuovi seguaci della fede. Oppresso dalla pesante gestione della diocesi di Catania, decise un giorno di ritirarsi in un monastero alle falde dell'Etna, per dedicarsi totalmente alla preghiera. In questa sua decisione fu seguito da alcuni suoi discepoli, che lo imitarono nello stile di vita ascetico.
La località del monastero in cui il vescovo Sabino si ritirò non è certa. Alcuni agiografi individuano questa località nel territorio che oggi appartiene a Zafferana Etnea, antica contrada immersa nella pace e nella tranquillità dei boschi etnei, che avrebbero di certo favorito la meditazione dei monaci. Morì il 15 ottobre del 760.
+Τη ΙΕ' του αυτού μηνός, μνήμη του εν αγίοις πατρός ημών Σαβίνου επισκόπου Κατάνης.
Sabino, vissuto nel secolo VIII, fu uno dei vescovi di Catania più stimati e apprezzati, tanto da essere venerato come santo dalla chiesa catanese.
Fu il predecessore di San Leone, dalla cui Vita si ricavano alcune notizie. Ordinato vescovo per le sue note virtù, fu l'XI vescovo di Catania; insigne per fama di santità attirò molti nuovi seguaci della fede. Oppresso dalla pesante gestione della diocesi di Catania, decise un giorno di ritirarsi in un monastero alle falde dell'Etna, per dedicarsi totalmente alla preghiera. In questa sua decisione fu seguito da alcuni suoi discepoli, che lo imitarono nello stile di vita ascetico.
La località del monastero in cui il vescovo Sabino si ritirò non è certa. Alcuni agiografi individuano questa località nel territorio che oggi appartiene a Zafferana Etnea, antica contrada immersa nella pace e nella tranquillità dei boschi etnei, che avrebbero di certo favorito la meditazione dei monaci. Morì il 15 ottobre del 760.
+ Il 13 di questo mese memoria del nostro santo padre Luca di Carbone, primo Egumeno del Sacro Monastero dei Santi Elia e Anastasio di Carbone. (1005).
+Τη ΙΓ' του αυτού μηνός, μνήμη του Οσίου πατρός ημών Λουκά, πρὠτου Ηγουμένου της Ιεράς Μονής των Αγίων Ηλιού και Αναστασίου εν τω Καρβουνίω. (1005).
Le poche informazioni su di lui ci provengono da un breve testo redatto da un suo successore, anch'egli chiamato Luca, che fu quinto abate di Carbone negli anni 1050. Νel 1600 Paolo Emilio Santoro, autore del Chronicon Carbonense, identificò Luca di Carbone con un altro santo omonimo e contemporaneo, Luca di Demenna, traendo in inganno svariati storiografi successivi e creando una confusione che si è trascinata per i secoli seguenti e che è riportata anche nella Bibliotheca Sanctorum. Viene inoltre confuso con un terzo san Luca, fratello di san Fantino il Giovane e abate nel Mercurion.
Nato in un luogo imprecisato della Calabria (l'identificazione di Tauriana come sua città natale è tarda), Luca fu fatto monaco da san Saba da Collesano, assieme al fratello san Biagio fondò, intorno al 971, il monastero dei Santi Elia e Anastasio di Carbone. San Saba morì nel 996 e Luca gli successe come archimandrita dei vari eremi e monasteri del Latinianon. Alla scomparsa di Luca, avvenuta dopo l'anno 1005, la guida del monastero di Carbone passò al fratello san Biagio.
Nato in un luogo imprecisato della Calabria (l'identificazione di Tauriana come sua città natale è tarda), Luca fu fatto monaco da san Saba da Collesano, assieme al fratello san Biagio fondò, intorno al 971, il monastero dei Santi Elia e Anastasio di Carbone. San Saba morì nel 996 e Luca gli successe come archimandrita dei vari eremi e monasteri del Latinianon. Alla scomparsa di Luca, avvenuta dopo l'anno 1005, la guida del monastero di Carbone passò al fratello san Biagio.
+ Il 13 di questo mese memoria del nostro santo padre Luca di Demenna. (984). (Si festeggia anche il 5 Febbraio)
+Τη ΙΓ' του αυτού μηνός, μνήμη του Οσίου πατρός ημών Λουκά του εκ Ντεμεννά. (984). (Τιμάται και στις 5 Φεβρουαρίου)
Nasce agli inizi del X secolo, secondo alcune fonti nel 918. Originario di una famiglia nobile, contrariamente al volere dei genitori Giovanni e Tedibia che lo vogliono sposato entra nel convento di san Filippo di Agira; si sposta poi nei pressi di Reggio Calabria, vivendo per un certo periodo con sant'Elia Speleota. Qui profetizza un'invasione saracena dell'Aspromonte e per evitarla si sposta a nord, nell'eparchia del Mercurion, sul confine con la Lucania, a Noa (l'odierna Noepoli), dove restaura una vecchia chiesa dedicata a san Pietro e vi si stabilisce con i suoi seguaci.
Dopo sette anni di permanenza a Noa si sposta ancora lungo il corso dell'Agri, restaurando il monastero di san Giuliano che negli anni seguenti prospera e s'ingrandisce.Ciò attira le ire di un signorotto locale, tal Landolfo, che tenta senza successo di mandarlo in rovina. Quando Ottone I attacca la regione, Luca e i suoi discepoli si trasferiscono ad Armento, dove fondano un monastero fortificato. Durante una nuova invasione saracena (guidata probabilmente da Abu l-Qasim Ali), quando il nemico giunge alle porte del monastero, Luca guida i suoi monaci a cavallo contro di loro in una vera e propria battaglia.
In seguito viene raggiunto da sua sorella Caterina, rimasta vedova, e dai suoi due figli, i quali prendono tutti i voti; Luca fa stabilire sua sorella e altre monache in un convento dedicato alla Madonna, che era stato saccheggiato dai saraceni nell'ultima invasione. Viene afflitto per tre anni da una malattia che lo fa zoppicare, quindi gli viene annunciata la morte imminente da un angelo e si spegne nel monastero di Armento nel 984, assistito e poi sepolto da san Saba di Collesano.
Nel 1600 Paolo Emilio Santoro, autore del Chronicon Carbonense, identificò Luca d'Armento con un altro santo omonimo e contemporaneo, Luca di Carbone, traendo in inganno svariati storiografi successivi e creando una confusione che si è trascinata per i secoli successivi e che è riportata anche nella Bibliotheca Sanctorum.
Dopo sette anni di permanenza a Noa si sposta ancora lungo il corso dell'Agri, restaurando il monastero di san Giuliano che negli anni seguenti prospera e s'ingrandisce.Ciò attira le ire di un signorotto locale, tal Landolfo, che tenta senza successo di mandarlo in rovina. Quando Ottone I attacca la regione, Luca e i suoi discepoli si trasferiscono ad Armento, dove fondano un monastero fortificato. Durante una nuova invasione saracena (guidata probabilmente da Abu l-Qasim Ali), quando il nemico giunge alle porte del monastero, Luca guida i suoi monaci a cavallo contro di loro in una vera e propria battaglia.
In seguito viene raggiunto da sua sorella Caterina, rimasta vedova, e dai suoi due figli, i quali prendono tutti i voti; Luca fa stabilire sua sorella e altre monache in un convento dedicato alla Madonna, che era stato saccheggiato dai saraceni nell'ultima invasione. Viene afflitto per tre anni da una malattia che lo fa zoppicare, quindi gli viene annunciata la morte imminente da un angelo e si spegne nel monastero di Armento nel 984, assistito e poi sepolto da san Saba di Collesano.
Nel 1600 Paolo Emilio Santoro, autore del Chronicon Carbonense, identificò Luca d'Armento con un altro santo omonimo e contemporaneo, Luca di Carbone, traendo in inganno svariati storiografi successivi e creando una confusione che si è trascinata per i secoli successivi e che è riportata anche nella Bibliotheca Sanctorum.
Il 13 di questo mese memoria del nostro santo padre Νiceta il Patrizio, Stratega del tema di Sicilia, il Confessore.
+Τη ΙΓ' του αυτού μηνός, μνήμη του Οσίου πατρός ημών Nικήτα του Πατρικίου, Στρατηγού του Θἐματος της Σικελίας, του Ομολογητού
+Τη ΙΓ' του αυτού μηνός, μνήμη του Οσίου πατρός ημών Nικήτα του Πατρικίου, Στρατηγού του Θἐματος της Σικελίας, του Ομολογητού
San Niceta il Patrizio – noto anche come S.Niceta di Paflagonia - nacque in Paflagonia nel 761-762 e fu castrato in giovane età. Ricevette una buona educazione ed all'età di diciassette anni (778 c.ca) fu mandato a Costantinopoli dove prese servizio a corte. Il suo operato fu notato dall'imperatrice madre – Irene l'ateniese – che nel 780 assunse la reggenza per conto del figlio Costantino VI. L'imperatrice, con cui secondo alcune fonti era anche imparentato, ne promosse la carriera. Elevato al rango di patrizio, Niceta fu quindi nominato strategos del tema di Sicilia nel 796-797, carica che ricoprì fino al 799. Poco o nulla si sa delle sue attività nel decennio successivo alla deposizione di Irene (802). L'agiografia riporta soltanto che, manifestato il desiderio di ritirarsi a vita monastica, ne fu impedito dal nuovo imperatore Niceforo I (802-811). Con l'avvento di Michele I Rangabe (811-813) potè prendere i voti monacali e l'imperatore gli affidò il monastero di Chrysonike situato nei pressi della Porta Aurea. Niceta rimase igoumeno del monastero fino all'815 quando, nell'infuriare delle persecuzioni iconoclaste durante il regno di Leone V (813-820) preferì lasciare la capitale e trasferirsi in uno dei suoi suburbi. Accusato di nascondere un'icona, fu quindi posto agli arresti domiciliari.
Con la nuova recrudescenza delle persecuzioni iconoclaste sotto l'imperatore Teofilo (813-842) gli fu ordinato di scegliere tra accettare la comunione con il patriarca iconoclasta Antonio I Kassymatas (821-837) o prendere la via dell'esilio. Niceta scelse l'esilio e, recatosi in Bitinia seguito da un pugno di monaci, prese a vagare lungo le coste del Mar di Marmara per sottrarsi alle molestie dei funzionari iconoclasti. Si stabilì infine nel villaggio di Katesia dove fondò il monastero di Asomaton dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì l'8 ottobre dell'836.
Le fonti principali per la sua vita sono la sua agiografia e il Sinassario. L'agiografia fu originariamente scritta da un anonimo monaco del monastero da lui fondato, sulla base degli appunti lasciati dal nipote e discepolo di Niceta che portava il suo stesso nome e che alla sua morte gli successe nella carica di igoumeno.
Spesso San Niceta è identificato con il patrizio Niceta Monomachos che nel 796 prelevò una mano di santa Eufemia dall'omonima chiesa costantinopolitana dove riposavano i suoi resti e la portò in Sicilia dove a Siracusa eresse una chiesa a lei dedicata. Si tratterebbe in questo caso del primo antenato noto del futuro imperatore Costantino IX Monomachos (1042-1055). A volte è identificato anche con l'ammiraglio che nell'806-807 guidò la flotta bizantina alla riconquista della Dalmazia e di Venezia.
In Italia, dove nel Meridione si diffuse un culto devozionale del santo, il suo nome ricorre spesso corrotto nella forma di San Niceto o Aniceto.
Con la nuova recrudescenza delle persecuzioni iconoclaste sotto l'imperatore Teofilo (813-842) gli fu ordinato di scegliere tra accettare la comunione con il patriarca iconoclasta Antonio I Kassymatas (821-837) o prendere la via dell'esilio. Niceta scelse l'esilio e, recatosi in Bitinia seguito da un pugno di monaci, prese a vagare lungo le coste del Mar di Marmara per sottrarsi alle molestie dei funzionari iconoclasti. Si stabilì infine nel villaggio di Katesia dove fondò il monastero di Asomaton dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì l'8 ottobre dell'836.
Le fonti principali per la sua vita sono la sua agiografia e il Sinassario. L'agiografia fu originariamente scritta da un anonimo monaco del monastero da lui fondato, sulla base degli appunti lasciati dal nipote e discepolo di Niceta che portava il suo stesso nome e che alla sua morte gli successe nella carica di igoumeno.
Spesso San Niceta è identificato con il patrizio Niceta Monomachos che nel 796 prelevò una mano di santa Eufemia dall'omonima chiesa costantinopolitana dove riposavano i suoi resti e la portò in Sicilia dove a Siracusa eresse una chiesa a lei dedicata. Si tratterebbe in questo caso del primo antenato noto del futuro imperatore Costantino IX Monomachos (1042-1055). A volte è identificato anche con l'ammiraglio che nell'806-807 guidò la flotta bizantina alla riconquista della Dalmazia e di Venezia.
In Italia, dove nel Meridione si diffuse un culto devozionale del santo, il suo nome ricorre spesso corrotto nella forma di San Niceto o Aniceto.
I'8 di Ottobre, memoria del nostro santo padre Ambrogio di Stilo in Calabria.
+ Tη 8η Οκτωβρίου, μνήμη του οσίου πατρός ημών Αμβροσίου του εν Στύλο της Καλαβρίας.
+ Tη 8η Οκτωβρίου, μνήμη του οσίου πατρός ημών Αμβροσίου του εν Στύλο της Καλαβρίας.
Il Santo calabrese visse come monaco - eremita sul monte Consolino sopra Stilo ed insieme a San Νicola iniziarono alla vita monastica San Giovanni Theristis. La grotta dei beati Ambrogio e Nicola, recentemente riconsacrata dai padri greco-ortodossi del monastero di San Giovanni Theristis di Bivongi, è la laura sul monte Consolino utilizzata dai due monaci anacoreti italogreci per condurre vita di penitenza, preghiera e contemplazione, suscitando una così forte attrazione sul giovane Giovanni Theristis, da indurlo a seguirne l’esempio ed il modello.
Il 5 di questo mese, memoria del nostro santo padre Luca vescovo di Bova.
+ Τη ε' του αυτού μηνός, μνήμη του εν αγίοις πατρός ημών Λουκά επισκόπου Βούας της
+ Τη ε' του αυτού μηνός, μνήμη του εν αγίοις πατρός ημών Λουκά επισκόπου Βούας της
Καλαβρίας.
San Luca, appare in un diploma del 1094. Di questo vescovo rimangono il testamento e alcune lettere, documenti pubblicati per la prima volta nel 1960, dai quali si evince che Luca fu, in un certo periodo, "amministratore della grande sede metropolitana di Reggio" nel contesto della contesa che contrappose Basilio, ultimo metropolita greco di Reggio, e i Normanni. Questo porterebbe a pensare che già dagli anni settanta dell'XI secolo Luca occupasse la sede di Bova e che fosse un vescovo greco, al quale era stato dato l'incarico di occuparsi dei fedeli ortodossi di tutto l'Aspromonte e di Reggio.
Qualche studioso ha ritenuto che i vescovi Luca, predicatori ortodossi in quel periodo in Calabria e Sicilia, fossero più di uno (qualcuno dice addirittura tre), ma è frequente l'affermazione che fossero due, ambedue calabresi, uno di Melicucca', vescovo di Isola Capo Rizzuto, l’altro di Bova.
Le tre lettere pastorali pubblicate da Ioannou, a Monaco di Baviera, nel 1960, attribuite a san Luca di Bova che ha esercitato il suo ministero episcopale nel periodo di maggiore attrito tra Greci-ortodossi e Latini, molto probabilmente con una sorta di immunita' per curare tutti i greci della Calabria e della Sicilia. Metropolita della Sicilia durante l'occupazione araba,infatti, era l'arcivescovo di Reggio, ma Basilio, designato a tale cattedra nel1079, da Cosma I di Costantinopoli, dopo dieci anni di vita errabonda senza che potesse prendere possesso della sua diocesi, venne sostituito, da Urbano II, con un vescovo latino che rimase, comunque, lontano dalla citta' calabrese; la situazione in Sicilia, durante la dominazione araba, non era migliore di quella calabrese.
A san Luca di Bova e dedicato anche, come afferma Paolo Martino, l'inno greco conservato nel cod. criptense 855, scritto nel 1355, che lo Schiro' attribuisce a S. Luca vescovo di Bova:
"Strumento splendentedello Spirito santo ti sei rivelatoTromba di pieta' Tuono di teologia,o Luca divinamente beato! Ora, stando supplici al tuo cospetto, o beato,imploriamo le grazie o teoforo, tre volte beato,dai tuoi venerandi resti mortali.O Luca Taumaturgo gerarca del Signore solleva da ogni ristrettezza coloro che con amore celebranola tua luminosa ricorrenza.O Madre di Dio,regina del mondo Per le preghiere di Luca Non cessare di tenere lontani i lupi Dal tuo gregge!"
Qualche studioso ha ritenuto che i vescovi Luca, predicatori ortodossi in quel periodo in Calabria e Sicilia, fossero più di uno (qualcuno dice addirittura tre), ma è frequente l'affermazione che fossero due, ambedue calabresi, uno di Melicucca', vescovo di Isola Capo Rizzuto, l’altro di Bova.
Le tre lettere pastorali pubblicate da Ioannou, a Monaco di Baviera, nel 1960, attribuite a san Luca di Bova che ha esercitato il suo ministero episcopale nel periodo di maggiore attrito tra Greci-ortodossi e Latini, molto probabilmente con una sorta di immunita' per curare tutti i greci della Calabria e della Sicilia. Metropolita della Sicilia durante l'occupazione araba,infatti, era l'arcivescovo di Reggio, ma Basilio, designato a tale cattedra nel1079, da Cosma I di Costantinopoli, dopo dieci anni di vita errabonda senza che potesse prendere possesso della sua diocesi, venne sostituito, da Urbano II, con un vescovo latino che rimase, comunque, lontano dalla citta' calabrese; la situazione in Sicilia, durante la dominazione araba, non era migliore di quella calabrese.
A san Luca di Bova e dedicato anche, come afferma Paolo Martino, l'inno greco conservato nel cod. criptense 855, scritto nel 1355, che lo Schiro' attribuisce a S. Luca vescovo di Bova:
"Strumento splendentedello Spirito santo ti sei rivelatoTromba di pieta' Tuono di teologia,o Luca divinamente beato! Ora, stando supplici al tuo cospetto, o beato,imploriamo le grazie o teoforo, tre volte beato,dai tuoi venerandi resti mortali.O Luca Taumaturgo gerarca del Signore solleva da ogni ristrettezza coloro che con amore celebranola tua luminosa ricorrenza.O Madre di Dio,regina del mondo Per le preghiere di Luca Non cessare di tenere lontani i lupi Dal tuo gregge!"
Ιl 3 di Ottobre, memoria di Sant' Esichio Discepolo di Sant'Ilarione il Grande.
+ Τη γ' του μηνός Οκτωβρίου, μνήμη του Οσίου Ησυχίου, μαθητού του Οσίου Ιλαρίωνος του Μεγάλου. Οι δύο όσιοι έζησαν για ένα διάστημα και ασκήτεψαν στην Σικελία.
+ Τη γ' του μηνός Οκτωβρίου, μνήμη του Οσίου Ησυχίου, μαθητού του Οσίου Ιλαρίωνος του Μεγάλου. Οι δύο όσιοι έζησαν για ένα διάστημα και ασκήτεψαν στην Σικελία.
Secondo la Vita di san Ilarione, di san Girolamo, in gran parte leggendaria, Esichio si fece monaco tra il 328 e il 354 a Majuma, presso la città di Gaza, in Palestina, ed accompagnò il suo maestro in Egitto, una prima volta nel 359 e una seconda nel 362-63. Dopo essere rientrato a Gaza, dove restaurò il monastero, raggiunse in Sicilia (365) Ilarione, dove vissero come eremiti in una grotta a Cava Ispica, e con lui andò ad Epidauro, in Dalmazia, e poi a Cipro. Di qui fece ritorno in Palestina, donde di tanto in tanto si recava a Cipro per vedere il maestro. Prima di morire, san Ilarione ne scrisse un piccolo testamento in favore di Esichio, lasciandogli il vangelo, gli abiti e un cilicio. Esichio ne portò il corpo a Majuma.
Non sappiamo quando e dove morì; il Baronio ne ha fissato arbitrariamente la festa al 3 ottobre.
Con la presenza di Ssnt'Ilarione inizia il periodo della diffusione del monachesimo, che si diffonde in ogni angolo della Sicilia e della Magna Grecia.
Non sappiamo quando e dove morì; il Baronio ne ha fissato arbitrariamente la festa al 3 ottobre.
Con la presenza di Ssnt'Ilarione inizia il periodo della diffusione del monachesimo, che si diffonde in ogni angolo della Sicilia e della Magna Grecia.